RECENSIONE – Roma in jazz
A Long Trip / With You
Abeat 2016
Nelle esperienze di chi vive il proprio viaggio musicale come ricerca non tutto viene portato alla massima espressione, privilegiando ciò in cui si rispecchiano eventi emotivi ritenuti (a torto o a ragione, nessuno potrà mai dirlo) più importanti, più formativi, più evolutivi; questo, forse, il motivo per il quale ogni performance venga proposta come Viaggio spesso non incontra facile leggibilità da parte di chi ascolta, perché, appunto, ogni Viaggio è personale, diverso da persona a persona e da artista ad artista.
Nel caso dell’album (chissà se “concept album”) del contrabbassista veneto il Piano delle Distanze da chi ascolta non appare in verità così algebrico, così cartesiano, così lontano dalle immagini che ognuno può, ragionevolmente, aver costruito nel corso di una storia individuale ricordata nei momenti essenziali; e questo non può che lasciare nell’uditore un senso di coinvolgimento assoluto, “facile” e stimolante per le sensazioni che i 7 brevi racconti suscitano per la loro spontanea natura d’essere complici a tutto tondo della molteplicità dei gesti umani, delle considerazioni esistenziali narrate secondo una sensibilità poetica che emerge, passo dopo passo, in geometrie musicali di ampio respiro jazzistico, inclini al tracciare i significati cromatici nelle luci dettate da un interplay profondo e ben misurato nelle garbate comprensioni dell’Altrui Essere.
Di quanti e quali intendimenti l’album riferisca sono Segnali estesi i flussi lirici che ascendono dalle elegie moderniste di Bill Evans e del Contemporary Jazz (“A Long Trip”, “May, the 14th”), dalle traslucide agilità espositive alla Pat Metheny (“Pesci”) e dal Cool newyorkese (“Green Dance”), alle derivazioni ECM dei climi notturni europei declinati in bruna intensità dalla dinamica incorporea dei battiti aerei di Gianluca Carollo al Flicorno e dal calore stilistico di Matteo Alfonso al piano e Andrea Ghezzo alla chitarra: attimi fuggenti per la brillantezza di un Dettar Frasi d’ Immaginazione risonante e abbagliante nel fluire bassistico di Marco Trabucco, particolarmente intenso e originale nelle variazioni più introspettive della composizione (“How did the Cat get so fat?”).
Un’autobiografia (riteniamo) ove le Blue Notes appaiono predestinate ad esprimere tutti i colori dell’anima.
Fabrizio Ciccarelli
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